Le valli Valdesi

Cibi, culture e identità montane

L’eresia di Lione
Non è troppo una forzatura della storia fare delle valli Pellice, Chisone e Germanasca le valli "dei valdesi". È vero che il movimento non nasce nelle valli e alle valli non si ridusse né si riduce oggi. Ma è anche vero che per alcune ragioni il movimento valdese si è identificato, e si identifica, con le valli, facendo di queste il centro della propria azione.

Valdo o Valdesio è un borghese di Lione che nell'ultimo terzo del Mille e cento, come molti altri cittadini abbienti prima e dopo di lui, si trova ad accumulare una discreta fortuna. Come molti altri prima e dopo di lui decide di spogliarsi dei propri beni, di donarli ai poveri e di seguire in prima prima persona l'insegnamento cristiano. La fortuna del movimento è rapida: negli ultimi anni del XII a Milano viene concesso ai “poveri lombardi” un terreno per la costruzione di una sede. L'espansione porta anche ad un distacco dai voti del fondatore.

La figura di Valdo sbiadisce: ma a differenza di altre condannate come eresie nel concilio di Verona (i Catari sono solo i più famosi), il valdismo permarrà, sperduto, in alcune sacche montane. E lì rimarrà, nascosta ma conscia della sua posizione nel cuore dell'Europa, fino a che, con la Riforma, la storia si ricorderà di questi montanari eterodossi. Memoria ne resta nella tradizione di alcuni luoghi: la Guèiza ’d la tana, la chiesa della grotta, ad Agrogna (tra il capoluogo e Serre), è la grotta in cui parrebbe che i valdesi in epoca medievale si ritrovassero per ascoltare la predicazione.

Valdesi nelle valli
Quando scoppia la Riforma i valdesi tornano a riallacciare rapporti in maniera sempre più stretta i rapporti con le nuove forme di cristianesimo che stanno sorgendo. Nel 1532 a Chanforan nello storico sinodo i barba delle aree valdesi, discutono e scelgono l'adesione alla Riforma, decidendo anche la traduzione in francese della Bibbia.

Un secolo e mezzo dopo, la revoca da parte di Luigi XIV dell'editto di Nantes, che sanciva diritto di culto in Francia ai protestanti, è l'occasione anche per il nuovo duca di riprendere un conflitto sempre caldo, questa volta con l'aiuto dei Francesi. I valdesi sono costretti dopo una dura resistenza alla resa, e all'espatrio in Svizzera e nei principati tedeschi meridionali. Solo un migliaio ritorneranno, quando una nuova attenzione della politica europea costringerà il ducato sabaudo ad un ennesimo cambiamento d'atteggiamento, in quello che rimane nella storia – e nel mito – come il Glorioso Rimpatrio. Dove di glorioso c'è appunto soltanto il viaggio: rimanere nelle valli è davvero come esserne confinati. E così sarà, a parte la felice parentesi napoleonica, fino alla concessione della libertà di culto da parte di Carlo Alberto: le regie patenti del 17 febbraio 1848, festeggiate con l'accensione dei fuochi, secondo una tradizione che si continua a ripetere.

Baron Leutrum
Il Ciabàs, tempio valdese in Angrogna, è uno dei più antichi luoghi di culto valdesi. Edificato a metà del Cinquecento, più volte distrutto e ricostruito, merita anche di essere ricordato per essere il luogo di sepoltura del barone von Leutrum. Von Leutrum nato e cresciuto nel Baden, al momento in cui la scoppiata guerra di successione austriaca minaccia il Piemonte, viene mandato dall'ormai austriaco Eugenio di Savoia a Vittorio Amedeo II, insieme a un reggimento di fanteria.

Leutrum si distingue e in pochi anni fa carriera nell'esercito sabaudo, pur rimanendo sempre di fede protestante. Famosa è l'impresa dell'assedio di Cuneo, piazzaforte che Leutrum difende e della quale, alla fine della guerra, sarà confermato governatore. E a Cuneo muore, come riporta la ballata popolare raccolta a suo tempo da Costantino Nigra. Secondo la canzone, di cui si conoscono numerose varianti, il re in persona va a trovare il barone sul letto di morte (per idropisia), e gli propone ogni onore. Gli chiede pure se non voglia essere battezzato: proposta che il barone rifiuta, volendo morire protestante “da buon barbetto”, e farsi seppellire in val Luserna, “dove il mio cuore trova riposo”.

An drin Turin a j'è dij cunt,     a j'è di cunt e de le daime,
E de le daime e dij barun,       pianzo la mort d' baron Litrun.
Signur lo re, quand l'à savù    ch' barun Litrun l'era malavi,
Cmanda carosse e carossè,     barun Litrun l'è andà trovè.
Quand l'è rüvà a Madona dl'Olm       prima d'intrè 'nt la sità d' Cuni
Tucu trumbëte, sparo canun,   për ralegrè barun Litrun.
Signur lo re, quand l'è stait là:            – Barun Litrun, cum'a la và-la?
– Sta maladia j'ò da mürì,        j'ò pi speransa de guarì.
Signur lo re s'à j'à bin dir:      – Baron Litrun, fa-te curage:
Mi te darù dl'or e dl'arzan,      mi te farù prim general.
– O s'à j'è pa né or né arzan,   che mai la mort l'abia për scüza.
J'è pa né re né general            che mai la mort l'abia risguard.
– O dí-me ün pò, barun Litrun,           o vös-tö nen che ti batezo?
Faria vnì 'l vësco d' Türin,       mi serviria për to parin.
Barun Litrun s'a j'à bin dit:     – Sia ringrassià vostra coronha.
Mi pöss mai pi rüvè a tan;      o bun barbet o bun cristian.
– O dì-me ün pò s' t'ái da mürì,           o duva vös-tu ch'a t' sutero?
Ti farù fè na cassia d'or,         ti farù fè d'ün grand onur.
– Mi lasserù për testament,     ch'a mi sutero an val d' Lüserna;
An val d' Lüzerna a m' sutraran,         duva mè cör s'arpoza tan.
Baron Litrun a l'è spirà;          piuré barun, piuré vui daime,
Suné le cioche, sparé i canun,             ch'a l'è spirà barun Litrun!

A Torino ci sono conti, ci sono contri e dame, dame e baroni: piangono la morte del barone Leutrum. Signore il re quando ha saputo che barone Leutrum era malato manda a chiamare carrozze e cocchieri: è andato a trovare barone Leutrum. Quando è arrivato a Madonna dell'Olmo, prima di entrare nella città di Cuneo, squilli di trombe e spari di cannoni per rallegrare barone Leutrum. Signore il re quando è stato là: «Barone Leutrum, come va?». «Questa malattia mi fa morire, non ho speranza di guarire». Signore il re ha detto allora: «Barone Leutrum, fatti coraggio: io ti darò oro e argento, io ti farò primo dei miei generali». «Oh, non c'è né oro né argento che mai la morte abbia per scusa; non c'è né re né generale per cui la morte abbia riguardo». «Oh, dimmi un po', barone Leutrum, non vuoi che esser battezzato? Farei venire il vescovo di Torino, e io stesso ti farei da Padrino». Barone Leutrum ha detto allora: «Sia reso grazie alla vostra corona, ma io non posso arrivare a tanto: o buon valdese (barbetto) o buon cattolico». «Oh, dimmi un po', se devi morire, dove vuoi esser battezzato? Ti farò fare una cassa d'oro, ti farò fare un gran funerale». «Io lascerò per testamento che mi si sotterri in val Luserna; in val Luserna mi sotterreranno, dove il mio cuore riposa infine». È spirato barone Leutrum, piangete baroni, piangete voi, dame. Suonino campane, sparino i cannoni: è spirato barone Leutrum.

Cultura linguistica
Proprio per il fatto di non aver condiviso una certa unità religiosa con le aree pedemontane vicine, le valli valdesi hanno avuto in ogni aspetto della loro cultura uno sviluppo autonomo. E se questo è osservabile nella cultura materiale, qui soprattutto per ciò che riguarda il cibo, l'aspetto forse più evidente è forse la lingua.

In generale tutte le valli del Piemonte montano sono punti d'osservazione linguistica interessantissimi. Evidentemente sacche di non completa e capillare romanizzazione, come tutte le zone alpine esse vedono una vicinanza maggiore tra versanti diversi della stessa montagna più che tra montagna e fondovalle. Sui pascoli e sui valici alpini ci si incontrava, si parlava, si condividevano le pasture. Si condivideva così anche una lingua: in tutto il Piemonte occidentale, dalle alpi liguri fin alla Val d'Aosta, i parlanti dell'alta valle sono patouasants, parlano patouà, la lingua locale in molti casi assai diversa dal piemontese: provenzale alpino fino alla val di Susa, franco-provenzale a Nord.

Il parlante non ha coscienza, o non l'aveva fino alle politiche di creazione di un'identità linguistica, di appartenere a un gruppo linguistico piuttosto che a un altro. Ma la differenza tra patouà e piemontese è sempre stata invece un tratto distintivo, in cui convergevano marcatori culturali e coscienza di una differenza. Differenza tra cultura e vita montana rispetto a quella di pianura; differenza a cui si aggiunge, per le nostre valli, quella religiosa.

Ma la scelta, se era di isolamento dal Piemonte sabaudo e cattolico, era un ponte gettato verso l'Europa: non un tratto che condannava ad un isolamento, ma un elemento grazie al quale stringere rapporti sulla più ampia scala internazionale.

Quando nell'Ottocento inizieranno le prime ondate di emigrazione alla ricerca di condizioni meno sfavorevoli, troveremo ragazze valdesi a fare le istitutrici in Russia, dove il francese era la lingua della nobiltà, a fare le pulizie nelle ambasciate di Francia, a far carriera tra i quadri dell'esercito napoleonico (di Napoleone III) e della République. Il senso di comunità, proprio di ogni minoranza, si è spesso sviluppato nelle comunità valdesi come senso non di chiusura, ma di apertura.

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